Arte: la strada della bellezza #lastrada1

La preghiera di Papa Francesco agli artisti del 27 Aprile sembra volerci risvegliare dal limbo in cui molti di noi si trovano sospesi, e infondere speranza a coloro che stanno attraversando l’inferno della malattia. Gli artisti, da sempre, non solo sono in grado di indicarci la strada da seguire nei momenti più oscuri, illuminandola con la loro creatività, ma anche di registrare e prevedere la realtà.

Ecco dunque una selezione di opere realizzate nel corso dei secoli durante gli anni bui di epidemie e pandemie, come esempi di forza creativa e messaggio di luce e positività.

Keith Haring, La Tour, 1987 (Aids).

La scelta dell’immagine è legata all’anniversario del completamento, il 6 maggio 1987, dell’opera “La Tour” che Keith Haring realizza per l’Hôpital Necker-Enfants Malades , clinica di chirurgia infantile a Parigi.
«Quando dipingo, lo faccio in pieno giorno per garantirmi la presenza costante di osservatori speciali: anziane signore, storici dell’arte ma soprattutto bambini. Quello che mi piace di loro è l’immaginazione: un misto d’onestà e libertà nell’esprimere ciò che gli passa per la mente. Così, ogni volta che mi è possibile, elaboro progetti insieme a loro». Per i bambini, Keith Haring (1958-1990) ha sempre avuto una sensibilità particolare. Lo dimostrava non solo coinvolgendoli mentre dipingeva i suoi murales, ma realizzando pitture e sculture da destinare a scuole e ospedali pediatrici. Nella primavera del 1987 il graffitista è a Parigi: «Attraverso Daniel Templon – il mio intermediario francese – e quelli del Centre Pompidou, abbiamo trovato uno spazio disponibile all’Hôpital Necker. Tra gli edifici vecchi e nuovi che fanno parte del complesso, proprio nel mezzo c’è una costruzione modernissima con una facciata di vetro e la scala di soccorso della Clinica di Chirurgia Infantile che corre su un lato della struttura. Il posto ideale per dipingere. Quindi, abbiamo fatto arrivare una gru per sostenere una cabina che muovendosi sopra una rotaia mi avrebbe consentito di venire issato su e giù, avanti e indietro. Dopo aver deciso i colori e ordinato tutto l’occorrente, ho iniziato a lavorare. Per la scala ci sono voluti 3 giorni ed è stato tutt’altro che facile, dal momento che io e il mio assistente Juan Rivera eravamo all’aperto e il tempo non è stato certo clemente. Ma ce l’abbiamo fatta, con grandissima soddisfazione».
Ribattezzata “La Tour”, simbolo di vita e di speranza per i piccoli malati, i loro genitori e il personale ospedaliero, l’opera prende forma il 28, 29 aprile e il 5 maggio. Alto 27 metri e largo 13, l’affresco murale dell’Hôpital Necker-Enfants Malades (unica opera monumentale “en plein air” di Keith Haring in terra di Francia) viene inaugurato il 6 maggio ’87. «L’ho dipinto con il desiderio di accendere un sorriso a quei bimbi, adesso e per il futuro», annota il graffitista americano sui Journals, i suoi Diari. Appena sopra la sigla KH87, ecco le sagome di piccole creature che gattonano. Via via, sempre più in alto, in un festoso tripudio rosso, verde, giallo e blu di palloncini e stelle filanti, ecco materializzarsi sagome che si sfiorano e si allungano fino a lambire idealmente l’azzurro del cielo (da Stefano Bianchi, Keith Haring: nuova vita per la Tour di Parigi, «Coolmag», 8 dicembre 2018, <http://coolmag.it/prima-pagina/keith-haring-nuova-vita-per-la-tour-di-parigi.php>).

L’amore di Haring per i bambini, come gioia, tesoro prezioso, è sempre stato presente nel suo lavoro anche con il Radiant Baby (Bambino luminoso). «I bambini sanno qualcosa che la maggior parte della gente ha dimenticato». I bambini gli piacevano davvero molto, forse perché non era ancora diventato grande e mai avrebbe avuto tempo di diventarlo. «Quel che mi è sempre piaciuto dei bambini è la loro immaginazione, una combinazione di onestà e libertà che permette loro di esprimere qualsiasi cosa gli passi per la testa. E poi mi è sempre piaciuto il loro senso dell’umorismo e l’incredibile istinto nei confronti di ciò che li circonda e di sentire le energie che provengono dalle persone […] o forse per la mia faccia buffa, o perché mi comportavo come loro sono sempre stato amato dai bambini, e vedendomi ridevano sempre».
Keith Haring credeva che l’arte fosse capace di trasformare il mondo, attribuendole un’influenza positiva sugli uomini. Forse non è a caso che intitolò il suo ultimo capolavoro pubblico Tuttomondo, un coloratissimo murale di centottanta metri quadri sulla parete esterna del convento di Sant’Antonio a Pisa in cui riproduce tutti i simboli che lo hanno reso celebre.

Haring, morto di Aids nel 1990, ha sempre parlato apertamente della malattia e messo in guardia dal pericolo del contagio senza pudori e con un linguaggio che ha saputo raggiungere i giovani e sensibilizzarli. La sua figura straordinariamente comunicativa incarna perfettamente la figura dell’artista evocata dal Papa.

Cai Guo-Qiang, Flora Comedia, 2019 (Covid-19).

Le opere di Cai Guo-Oiang sono impalpabili, evanescenti perché fatte con fuochi d’artificio. La performance Flora del 2019, eseguita a Firenze nel cielo di fronte a Piazzale Michelangelo, raffigura magistralmente questo momento storico, così sfuggente e inaspettato. Le opere dell’artista sono oniriche e ci trasportano verso un mondo di sogno e di evasione, desiderio mai così profondamente sentito prima d’ora.

Richard Prince, Mission Nurse, 2002 (Sars).

I primi anni del 2000 sono gli anni in cui appare la Sars, si parla continuamente di infezioni, vaccini, nuovi farmaci, medici e soprattutto delle infermiere esposte in prima linea.

L’infermiera diventa un’eroina alla quale vengono dedicati racconti e copertine di una collana di libri da edicola. Nelle opere di Prince, che prendono spunto proprio da queste immagini, la figura dell’infermiera è sublimata e seppur rappresentata come una figura forte – quasi dominatrice, un’eroina appunto – mantiene sempre una straordinaria forza femminile: la forza della donna creatrice e protettrice dell’umanità contro l’ignoto, il buio, la malattia.

La figura della Nurse diventa un simbolo così forte che Marc Jacob, allora direttore creativo di Louis Vuitton, decide di stringere una collaborazione con l’artista Richard Prince, creando per la collezione P/E 2008 borse dai toni preziosi ornate con le sue opere irriverenti. La sfilata di quella stagione si apre con una successione di top model vestite da infermiere, un chiaro riferimento alla serie Nurse Paintings dell’artista.

General Ideas, Aids, 1987 (Aids).

Anni ‘80, ancora AIDS. La malattia dilaga e terrorizza. Il collettivo artistico General Idea, attivo dal 1967 al 1994 tra Toronto e New York, formato dai tre artisti canadesi Felix Partz (1945-1994), Jorge Zontal (1944-1994) e A.A. Bronson (nato nel 1946), affronta il tema con un linguaggio vivace, e con opere dai colori forti, risposta antitetica alla paura ormai ovunque diffusa dell’Aids, utilizzando simboli e un linguaggio vicino al grande pubblico.
Da sempre interessati al sovvertimento delle forme proprie della cultura popolare (spettacoli televisivi, mass media, padiglioni fieristici, negozi), utilizzano come display mezzi non convenzionali quali cartoline e cartelloni pubblicitari. A partire dagli anni ’80 General Idea concentra il proprio impegno artistico sul tema dell’AIDS, che in quegli anni sta sconvolgendo l’America. I tre artisti stigmatizzano in particolare il silenzio criminale con cui il governo statunitense affronta il dramma dell’epidemia: ispirandosi a LOVE dell’artista Robert Indiana, opera entrata nell’immaginario collettivo, il collettivo artistico ne crea una nuova versione sostituendo la parola “LOVE” con “AIDS”, normalizzandone così l’uso e diffondendone la consapevolezza.

Christo et Jeanne Claude, Running Fence, California, 1976 (Virus Ebola).

Nel 1976 c’è un nuovo nemico da combattere: il virus Ebola. Per contrastare questo sopravvenuta epidemia occorre evasione, un gesto poetico ma forte, che faccia sognare ed evadere da questa terribile realtà. Christo e Jeanne Claude realizzano in California un’opera monumentale: un’installazione lunga 39,4 Km composta da 2.050 pali d’acciaio e 200.000 mq di tessuto di nylon pesante di colore bianco. Bianco non come segno di arresa ma come desiderio di pace.

Giorgio De Chirico, Il Saluto degli Argonauti partenti, 1920 (Febbre spagnola).

La febbre spagnola, la più grande pandemia del secolo scorso, fu insolitamente mortale e tra il 1918 e il 1920 arrivò a infettare circa 500 milioni di persone in tutto il mondo, inclusi alcuni abitanti di remote isole dell’Oceano Pacifico e del Mar Glaciale Artico, provocando il decesso di 50 milioni di persone su una popolazione mondiale di circa 2 miliardi.
De Chirico ne Il saluto degli Argonauti partenti ci trasmette la speranza e la forza che accompagnava gli Argonauti.

Gianlorenzo Bernini, Medusa, 1630 (Peste).

Ovidio narra che la mitica Medusa, la più bella delle Gorgoni, aveva il potere di pietrificare chiunque osasse incrociare il suo sguardo. Bernini immortala Medusa nel momento in cui si sta specchiando, coglie l’attimo della sua metamorfosi in marmo. Il magnifico volto della Medusa di Bernini sembra esprimere dolore, angoscia, potrebbe essere una metafora della preoccupazione dovuta al dramma della peste del 1600. I capelli/serpenti sembrano ben esprimere l’essenza del male che scaturisce da una malattia così mortale come la peste. Tuttavia la bellezza e la perfezione di questo volto riescono a distrarci dallo scenario di morte, Bernini «attraverso la bellezza ci indica una strada da seguire». Quest’opera fa parte della collezione del Palazzo dei Conservatori a Roma.

(Martina Giannini)

Paolo Veneziano, Polittico di Santa Chiara, 1350 (Peste Nera).

Nel 1350 il nostro Paese è piegato dalla peste nera. Non sono molte le cure, ci si rivolge a Dio con le preghiere. In questo clima Paolo Veneziano dipinge il Polittico di Santa Chiara (Polittico dell’Incoronazione della Vergine con storie di Cristo e di San Francesco), uno splendido dipinto a tempera e oro su tavola (167x285cm) e conservato nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia.

Corteo di Teodora, 546 -547 circa (Peste di Giustiniano).

La cosiddetta “peste di Giustiniano” è una pandemia di peste che si diffonde nei territori dell’Impero bizantino, soprattutto a Costantinopoli (attuale Istanbul), tra il 541 e il 542 (VI secolo), sotto il regno dell’imperatore Giustiniano I (527-565). In quegli stessi anni Giustiniano sta modificando il volto di Ravenna, dove però non andrà mai; sceglie questa città storicamente così importante come capitale dell’Esarcato (cioè dei possedimenti bizantini in Italia) prendendo a modello la capitale dell’Impero Costantinopoli, a sua volta costruita dall’imperatore Costantino il Grande a immagine e somiglianza di Roma. Sia i nuovi edifici ecclesiastici che quelli già esistenti sono arricchiti con splendidi mosaici bizantini, che esaltano sì la fede cristiana, ma anche la figura della famiglia imperiale. In anni in cui l’Impero è devastato dalla pandemia, Giustiniano comunque vuole mostrare la potenza del suo regno anche attraverso grandi opere architettoniche ed artistiche. Un esempio fra tutti è la basilica di San Vitale, completamente decorata dagli straordinari mosaici bizantini, tra cui il corteo di Giustiniano e della moglie Teodora, posti uno di fronte all’altro nella parte inferiore dell’abside; sotto il corteo celeste (con Cristo, angeli e santi) si trova dunque il corteo reale terrestre. Nel corteo di Teodora, su uno sfondo d’oro atemporale, tutti i personaggi sono avvolti da una certa sacralità, ormai privi d’ogni materialità corporea, il colore trova la più squillante esaltazione grazie agli smalti e alle madreperle, che creano un gioco di luci e riflessi. L’imperatrice ha dimensioni maggiori rispetto alle altre figure proprio per evidenziare la sua importanza. Gustav Klimt, a seguito della sua duplice visita a Ravenna del 1903, diede inizio a quel periodo della sua pittura chiamato aureo: lo fece dopo avere ammirato l’oro di questi mosaici, oro di cui trattenne la forma e abbandonò il contenuto teologico, trasformando le iconografie sacre in arabeschi secessionisti.
Quest’opera è stata scelta come esempio della forza dell’arte, della bellezza che ne scaturisce anche nei momenti più bui e disperati.

(Martina Giannini)

Callicrate, Tempietto di Atena Nike ,427-423 a.C., Acropoli di Atene (Peste di Atene).

Intorno al 430 a.C., non molto tempo dopo l’inizio della guerra tra Atene e Sparta, un’epidemia di “peste” (forse febbre tifoide) devasta la popolazione ateniese per circa cinque anni. Lo storico greco Tucidide (460-404 o 399 a.C.) così racconta nel II libro della sua Guerra del Peloponneso l’irrompere della peste in Attica e ad Atene durante l’estate del secondo anno di guerra (430 a.C.): «[…] Si trovavano in Attica da non molti giorni (gli Spartani), quando prese a serpeggiare in Atene l’epidemia […]. Ma nessuna tradizione serba memoria, in nessun luogo, di un così selvaggio male e di una messe tanto ampia di morti. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati. Ogni altra scienza o arte umana non poteva lottare contro il contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il ricorso agli oracoli e ad altri simili rimedi riuscirono completamente inefficaci: desistettero infine da ogni tentativo e giacquero, soverchiati dal male. […]» (II, 47).
Proprio in quegli anni l’architetto Callicrate inizia la costruzione, sull’acropoli di Atene, del tempietto di Athena Nike (vittoriosa), gioiello di arte ionica in marmo pentelico, con quattro colonne sulle due fronti e con unica cella, al cui interno si trovava la statua in legno di Athena con un melograno nella mano destra ed il suo elmo nella sinistra. La statua della dea era, a differenza della sua consueta iconografia, come riporta lo storico Pausania (II secolo d.C.), «Nike Aptera», cioè vittoria senz’ali affinché non volasse via ma rimanesse sempre a protezione di Atene; secondo un’altra versione la statua era inizialmente alata, mentre il nome le sarebbe stato dato più tardi quando le furono rubate le ali d’oro.  Un fregio continuo, oggi conservato al Museo dell’Acropoli di Atene e al British Museum di Londra, correva sui quattro lati ed era decorato ad alto rilievo con lotte tra Greci e Persiani alla presenza degli dèi. Il tempio è stato smembrato tra il 1686 ed il 1687, quando i Turchi, di fronte all’attacco dei Veneziani, ne utilizzarono i pezzi per erigere un bastione difensivo; il suo aspetto attuale è frutto di numerosi e radicali interventi di restauro e ricostruzione avvenuti a partire dal XIX secolo.
Questo tempio dunque viene costruito in anni di gravi difficoltà per Atene, caratterizzati dalla guerra contro Sparta e dall’infuriare di una terribile pandemia, forse con la volontà di affermare il desiderio di “vittoria” sui nemici e sulla malattia, come sembra suggerire la dedica stessa ad Athena Nike, dea volitiva e combattiva dell’Olimpo greco; il melograno nella mano destra di Athena, simbolo nel mondo classico di  prosperità, fertilità e rinnovamento, sembra al contempo testimoniare l’aspirazione ad una rinascita dopo un periodo così tragico.

(Martina Giannini)

Immagine di copertina
Christo et Jeanne Claude, Running Fence, California, 1976.